Mi alzo. Sono le cinque del mattino. Tra poco anche quella stella scomparirà per fare posto ad un
nuovo giorno. Ma forse a ben pensarci non è una stella. Forse è Venere che al mattino si chiama Lucifero. A poco a poco le luci si spengono. Sembrano tanti lumi e mi ricordano un tempo antico di quando intorno al braciere ci raccoglievamo a sentire storie. Eravamo in tanti: gli zii, i cugini, i miei genitori, tutti raccolti in un cerchio dove ognuno si sentiva parte di un’unica, umile, grande trama di un’esistenza povera ma appagata di piccole gioie, di giochi inventati, di giocattoli costruiti con le cose che trovavamo a volte per strada. La nonna raccontava sempre la stessa storia: suricillo e pezza n’ fosa. Un povero sorcio che, per cercare cibo, si trova nella pentola piena d’acqua e muore annegato. Oggi racconto storie a Giuseppe che non vedo da due mesi. Ogni giorno lo chiamo con lo smartphone e, non sempre, mi compare la sua faccia triste, angosciata, rassegnata e ogni volta mi chiede quando arriva il giocattolo che gli ho ordinato il giorno del suo compleanno.
Io mostro il mio viso sorridente (così lo rassicuro penso, ma poi dico: che idiozia! I bambini il male lo percepiscono, lo sentono, corre sui fili). Gli ho raccontato una storia sulla noia, una sull’ansia, una sulla tristezza, una sui desideri rovesciati. Lui le ascolta. A volte mi chiama per sentirle, altre volte si annoia. Sono storie che ho inventato io. Penso che in questa bailamme i bambini sono diventati invisibili. Tanto sono bambini, hanno una vita davanti. Sarà vero? Veramente pensiamo che la qualità della vita è nella durata del tempo, nella lunghezza? E la larghezza? E la profondità?
Intanto avranno un bel problema le generazioni future: saranno impegnate a venire a patti con questa idea di un mondo perseguitato da un nemico invisibile, subdolo, che ti può attaccare mentre abbracci qualcuno. E dovranno rassegnarsi all’idea che le mani, le proprie mani hanno perso l’innocenza, tutto ha perso l’innocenza, soprattutto l’amore, il contatto, l’amicizia, il respiro. Dovrà conciliare due immagini dentro di sé: quella dell’uomo che ha messo piede sulla luna e l’uomo che non ha potuto accogliere l’ultimo sguardo del padre, del fratello, della madre, dell’amico; l’idea di una scienza onnipotente e l’idea di una scienza in ginocchio, l’immagine di studiosi seri, dediti alla ricerca e studiosi presi dal chiacchiericcio avido e inconcludente, drogati dal protagonismo senza fine, senza scopo. E intanto nessuno di noi saprà mai che sapore ha avuto il dolore di chi ha lasciato la vita così, senza sapere il perché di questa silenziosa, implacabile aggressione della morte. E allora racconto storie e mi ricordo di quando, davanti al braciere, mia nonna mi raccontava suricillo e pezza n’ fosa. E una lacrima mi scendeva sul viso e dolcemente mi faceva compagnia. Mia nonna non lo sapeva che con quella storia mi educava all’imperscrutabilità dei decreti del caso, all’ineluttabilità dei tiri mancini della vita e infine all’amor fati.