Era lì, nella sua stanza stretta e scura. Sfiorava con l’indice un brufolo sul naso e scrutava la parete di fronte a sé, alla ricerca di qualche imperfezione nascosta. Alle sue spalle, la finestra con le tapparelle abbassate, filtrava un sottile filo di luce a cui non aveva il coraggio di avvicinarsi.
L’emergenza improvvisa aveva costretto anche lui ad alzare la soglia di allarme, ma non a restringere i margini di azione. Diversamente dagli altri, non si era ancora chiesto quanto avrebbe resistito chiuso in casa. Né quali effetti avrebbe avuto su di sé la quarantena.
Niente calvari, né gare di resistenza, per lui. Solo un’altra condizione di vita. Sempre protetta, isolata e duratura, come la precedente.
Nulla era cambiato, neppure adesso che la vita là fuori provava a riprendere lentamente i vecchi ritmi interrotti.
Poteva sedurlo l’imbarazzo dei primi saluti ravvicinati. Oppure l’ebrezza di avanzare spedito tra i passanti e sussultare al primo tocco di uno sconosciuto. No! Quelle
manifestazioni di umanità non erano per lui oggetto di una sospensione necessaria, ma di una rinuncia spontanea antecedente.
Già da prima si era chiuso in sé stesso attratto dalla penombra rassicurante della sua stanza. Era quello il suo posto.
Lui, come tutti i ragazzi della sua età, cercava di essere considerato per qualcosa che sapeva fare bene. E non c’era nulla che lasciasse presagire un apprezzamento, là fuori.
Si chinò, tirò a sé il portatile appoggiato a terra e lo accese. Una nuova luce spezzò la penombra e ridisegnò i suoi lineamenti imprecisi.
Inclinò il busto verso lo schermo abbagliante ed attraversò l’unica porta che si era concesso di oltrepassare. Si catapultò nel mondo virtuale del videogioco per un’altra lunga esibizione immateriale. Picchiettò con destrezza sulla tastiera al ritmo di quella danza convulsa che avrebbe ossigenato la sua autostima, ancora una volta.
Ecco perché, al sole che emanava esili raggi di speranza, preferì la sua solita penombra.