O fflitt è il para-diclorodifeniltricloroetano, che non è una parolaccia, ma il termine scientifico con il quale si indica un insetticida molto “familiare” negli anni cinquanta del secolo scorso. La voce dialettale può sembrare il solito tentativo di semplificare le cose difficili e incomprensibili e renderle adatte, convenienti al nostro modo di esprimerci. In realtà ricalca sostanzialmente il nome commerciale con cui veniva distribuito il DDT: Flit infatti era il suo marchio di fabbrica. ‘O fflitt dunque, pronunciato così, anziché una comoda scorciatoia era un modo di rendere ancor più affabile l’insetticida dal nome lungo e complicato accompagnando l’inizio e la fine della parola con un amorevole e conciliante raddoppiamento fonosintattico. Dicendo “familiare” intendevo proprio alla lettera: “di famiglia”, nel senso che l’uso frequente di esso, l’assuefazione pacifica a quel “leggero odore di composto aromatico clorurato” e il fatto che si pompasse per mezzo di un aggeggio-giocattolo molto ambito e sempre a portata di mano, lo rendevano domestico, consueto, quotidiano, noto, e quindi familiare. Spingere lo stantuffo all’interno del cilindro di latta, all’estremità anteriore del quale era saldato quel simpatico recipiente che conteneva l&’insetticida era proprio un gioco da ragazzi. Chi però a casa utilizzava la pompa in maniera sistematica e professionale era mio padre che sembrava aver ingaggiato una vera e propria guerra personale con le mosche. Dopo aver invano tentato di sbarazzarsi di quegli insetti fastidiosi e nocivi con metodi empirici che andavano dallo scioccamosche (piccola asta di legno con strisce di carta legate all’estremità) al panno volante o al giornale piegato a cilindro, rompendo sovente lampadine e lampadari, passò finalmente all’arma di sterminio: con metodo scientifico, con piglio severo ed arcigno, dopo aver chiuso porte, finestre e finestrini, imbracciava l’arnese e irrorava la cucina di DDT. Chiaramente era una lotta lunga e dagli esiti non sempre adeguati allo sforzo profuso – nonostante la lucida e ferma pianificazione – perché tutto intorno a lui: scarsa igiene generale, presenza nel cortile di animali di ogni genere, escrementi quindi diffusi e vicini, rendevano il fortino-cucina al pian terreno facilmente espugnabile. Non mollò la presa tuttavia. Imperterrito seguitò a pompare flit, forse memore dei miracoli fatti nella sua terra calabrese d’origine dal paradiclorodifeniltricloroetano nei confronti delle zanzare anofele responsabili della diffusione della malaria.
Non ricordo quando è finita la guerra contro il Male rappresentato dalle mosche. So solo che grazie a questa azione omicida – “il DDT uccide, aprendo i canali del sodio nei neuroni degli insetti, causando loro spasmi incontrollati e la morte”- riuscivamo finalmente a mangiare sereni in quel campo di battaglia ripulito dai cadaveri nemici. Sarà stato anche per questo che ‘o fflitt ci appariva innocuo e lo respiravamo con piacere.
Tanto innocuo, però, forse ‘o fflitt non era se nel 1978 in Italia si arrivò a vietarne l’uso. Dichiarato “inquinante organico persistente”, venne messo pesantemente in discussione. Si cominciò a parlare di “rischi potenziali sottovalutati” e di “possibilità di effetti cancerogeni”. La statunitense Rachel Carson, biologa e zoologa, già nel 1962 aveva denunciato fra gli effetti devastanti e indiscriminati del DDT la scomparsa di uccelli canori. Aveva il fondato timore che la nostra primavera futura potesse essere sempre più silenziosa.
To flit = volare, svolazzare; volteggiare (di uccello)