– Pronto?

– Pronto?

– Ccciao…

– Ma chi è al telefono scusi?

– Come faccio a dirtelo?

– Non so, faccia lei!

– Sono la fratellastra di papà tuo.

A quell’errore lessicale che nella mia testa ne evocava altri cento di ben diversa natura, mi venne da ridere e piangere insieme.

Intanto la fratellastra, acciuffato tutto il coraggio del mondo, così continuò: – Sono Susy, tu non mi conosci, ma io e Giacinto, papà tuo, siamo fratellastri, figli di Franco, ma di madre diversa.

Si stava sbagliando Susy, perché io di questa storia sapevo tutto fin da bambina, da quando una sera in macchina, mentre pensavo ai doni da chiedere alla Befana, mio padre a un tratto disse: – Il tuo vero nonno è morto. Tu lo sai perché noi portiamo un cognome diverso da quello di nonno Vittorio?

Non lo sapevo, ma me lo chiedevo sempre quando leggevo la targhetta fuori la porta di casa, una volta avevo provato a chiederlo a nonna, ma lei era scoppiata in lacrime e allora mi ero giurata di non fare mai più riferimento alla cosa. La sua sofferenza era assolutamente intollerabile, lei doveva ridere. Ora finalmente mio padre stava per svelare l’arcano.

– Io non sono suo figlio, lo chiamo papà perché mi ha cresciuto, mentre il mio vero padre se n’è andato presto e l’ho rivisto poche volte. So che ha avuto due figlie (quindi le fratellastre erano ben due!) e un’altra vita dove noi non eravamo compresi. Mo’ non lo posso vedere più… e neanche tu.

Così, tutto d’un fiato scoprivo che la Befana non poteva esistere. Era inutile chiedere.

– Susy ciao, sono felice di sentirti, sapevo di te, ma non avevo idea di come ti chiamassi né di dove cercarti. In realtà neanche papà sapeva da dove cominciare, ma sono certa che sarà contentissimo di poterti finalmente conoscere.

– Ma tu veramente dici? Maro’ sapessi quanti problemi mi sono fatta prima di prendere il telefono e chiamare. Solo adesso che siamo stati chiusi dentro per questa cosa del virus, con la paura di non poterlo più incontrare, mi sono fatta coraggio e… Sono così ingrippata!

– Vabbè però alla fine lo hai preso sto telefono, stiamo parlando, già è una cosa no? Io comunque sono Enrica.

– Ti chiami come tua nonna, è bello.

– Come lo sai che anche la nonna si chiamava così?

-Io porto il nome di mamma, loro si conoscevano bene.

Fu così che la fratellastra aggiunse un altro pezzo del puzzle che papà anni prima aveva omesso, ovvero che il caro nonno Franco non solo li aveva abbandonati, ma lo aveva fatto per stare con una cara amica della moglie, tale Susetta, giovane bellissima, morta prematuramente mettendo al mondo Susy.

La vita e la storia della mia famiglia tornavano a sorprendermi. Nel tempo dilatato e compresso di una quarantena, spesso la memoria si era riempita di odori, voci, rumori lontani che testimoniavano la mia esistenza, il mio esserci stata da qualche parte e per qualcuno. Ora una telefonata sparigliava di nuovo le carte, proprio come quella sera di tanti anni prima quando avevo smesso di credere alla Befana. Eppure ero felice. Per mio padre, per noi, per Susy, di cui intuivo tutta la necessità di quel legame a lungo negato.

Nell’impossibilità di uscire e vedersi per un caffè, i due fratelli sconosciuti cominciarono a sentirsi ogni giorno alle quattro del pomeriggio, quando il marito di lei era fuori per lavoro. Proprio come due ragazzini che scoprono insieme la meraviglia di esserci, in mezzo al delirio del mondo stravolto dalla pandemia, loro ricucivano trame, trovavano un senso, si raccontavano vicendevolmente. Si
erano scambiati solo uno scatto, poi avevano scelto di parlarsi al telefono senza vedersi fino a quando non fosse stato possibile uscire.

E mentre il resto dell’umanità metteva distanza per sopravvivere a un virus implacabile, mio padre e Susy si avvicinavano con le parole che non si erano detti per 37 anni, racconti di vite che anelavano incrociarsi.