Ma chi l’ha detto che dobbiamo amare il vicino, comprenderlo, che i suoi bambini sono carini anche se urlano e sbattono tutto il giorno e che appena possono salgono in terrazza sopra la mia testa e corrono a più non posso, come se nel cervello avessero solo segatura e desiderio di sfogare gambe e braccia.
Chi l’ha detto che io debba sopportare tutto questo?
Chi dice che bisogna essere solidali con tutti gli inquilini del palazzo. Io suono solo al citofono delle vecchiette, per sapere come stanno e se serve loro qualcosa, perché sono soltanto due, sono innocue, non rompono i coglioni e mi hanno sempre fatto favori. Tutti gli altri non li conosco e non li voglio conoscere.
Le cantate dalla finestra per me sono durate solo due giorni, l’ho trovato falso e inutile e infatti dopo una settimana hanno smesso anche tutti gli altri.
Io sto bene chiuso in casa. Ma quando hanno obbligato anche gli altri a rimanerci ho sofferto, perché gli altri nella loro casa, accanto alla mia, consumavano il mio silenzio, il mio spazio vitale, la mia aria.
Ed ora a quasi due mesi dall’inizio della reclusione forzata mi chiedono di uscire dal mio guscio per andare a trovare i congiunti, a me che non ho più nessuno.
Tutti gli altri si precipiteranno fuori a respirare la loro gioia e sarà proprio in quei respiri falsamente gioiosi che si anniderà di nuovo il male.
Si può tornare a lavoro. Io che non ho mai smesso di lavorare da casa, sono obbligato a rientrare in un luogo fisico chiamato ufficio, compreso in quattro mura ostili, polverose come la mente dei miei colleghi, ad ascoltare le stesse chiacchiere, con lo stesso falso sorriso, con la stessa falsa comprensione, a ridere falsamente alle stesse inutili battute.
Per uscire sarò costretto a salire sui mezzi pubblici, in mezzo a umani spaventati e rancorosi, che non mi rivolgeranno lo sguardo, temendo che io possa rivolgere loro la parola e che il mio fetido alito infetto superi la mia mascherina, salti il metro e mezzo vitale per andare ad infettarli.
Il bar sotto l’ufficio aveva una igiene discutibile, ma ci andavo volentieri perché il caffè era buono e i ragazzi simpatici, nessun contratto regolare, mi chiedo se avrà
resistito alla chiusura, se troverò gli stessi ragazzi e se il caffè sarà ancora buono, in virtù della nuova igiene richiesta dal DPCM. E se fosse in un nuovo bar, sarà più forte il desiderio di caffè e di vita normale, oppure il terrore di poggiare le labbra su tazzine lavate da sconosciuti?
Piove. L’acquazzone spazza via tutto, cartacce e polvere, guanti di gomma leggera, mascherine, oggetti utilizzati da non riutilizzare. Furia e vento freddi, con forza inaspettata, invernale. Dalla finestra una luce ed il rombo che quasi spacca i vetri. Veloce salgo in terrazza. La trovo vuota, le bestie umane sono tornate al chiuso, tutti dentro e bagnati. Rido di soddisfazione all’improvviso scherzo che la natura ha buttato sulla città. In strada vedo correre gli stessi che erano fermi in piazza, qualcuno si ferma sotto un balcone, poi scappa con la giacchetta leggera a riparare la testa, finché tutto è spazio vuoto. Nero il cielo, neri i sampietrini rilucenti di acqua, che prosegue battente. Io sto qui, annuso l’aria, apro la bocca, tiro fuori la lingua e bevo la pioggia, allargo le braccia, il viso verso il cielo con gli occhi chiusi, zuppo sotto la violenza, godo il momento feroce. Poi la ferocia inizia a smorzare d’intenso, finché il fiume torna ad essere gocce timide, si accende un arcobaleno e tornano le voci in strada, anche per le scale, pronti ad assediare la terrazza.
Allargo le braccia, chiudo gli occhi e volo giù.