“Ora conteremo fino a dodici e tutti resteremo in silenzio”, sostiene Pablo Neruda nel testo della poesia che sto leggendo. Chiudo il libro con un colpo secco, più seccata del colpo. Di un ottimismo che mi innervosisce il poeta, beato lui! Io non ho ancora ben capito fino a quanto o a quando dovrò contare e restare ad ascoltare questo silenzio. Forse molto di più dei secondi necessari per arrivare fino a dodici; ciò che so di
questa maledetta pandemia mi autorizza realisticamente ad essere più vicina agli “infiniti silenzi” di Leopardi: rendono meglio l’idea di qualcosa di dilatato nel tempo e nello spazio che lo rende inafferrabile e senza  un’ipotizzabile fine. Angosciante.

Seduta sotto il portico, ad occhi chiusi, persa nel fresco della sera e nei profumi di una primavera sfacciata che avanza imperterrita, cerco il “mio” silenzio, quello che c’era prima della pesante linea di demarcazione tracciata nella storia da questa tragedia. Un silenzio… bello, che cerco invano nel mutismo senza sfumature di quello odierno.
Come un vecchio che dimentica il presente, ma ricorda minuziosamente il passato, mi trovo a riesumare con nostalgia i vecchi tempi, quando il silenzio era un valore e non una costrizione.

Ricordo quel silenzio semplice che trovavo la sera quando ritornavo dal lavoro e a casa non c’era ancora nessuno. Un silenzio complice, che mi accoglieva comprensivo e scomponeva la mia stanchezza in piccoli gesti liberatori e quasi rituali.
Ricordo il silenzio dalla voce profonda di una delle notti d’estate trascorse in Trentino; lo sentivo, leggero, scorrere tra il mio stupore e il velluto scuro del cielo, scivolare quale carezza sui fianchi delle montagne dai profili appena percettibili.

Quanti altri silenzi ho ascoltato… diversi fra loro, densi di presenze, sussurri e null’altro ma così ricchi nella loro semplicità.

Amavo anche “leggere il silenzio” espresso in modo sublime nei testi dei poeti, appena trasparente o chiuso in ermetismi ricercati.
Assaporavo il suo valore negli sguardi complici che intercettavo e sigillavano tacite intese; apprezzavo quello semplice e buono, che spegneva con dolcezza la voce del giorno, che si stemperava in mille modi, spettatore e complice della nostra vita e dei nostri dubbi.

Li ho amati tutti questi silenzi, ma ora non li ritrovo più nelle loro sfumature, assorbiti e annullati da questo silenzio nuovo, monocorde, pesante e cupo. Un silenzio con il fiato sospeso, figlio di una vita sospesa e rimandata: dà solo il senso precario di qualcosa spezzato di colpo. Quello di pace è perduto per sempre, credo.

“Abbiamo riscoperto il valore del silenzio”, tuona la retorica ufficiale per farci digerire l’imposizione del lockdown… “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò!

Questo non lo è, si tratta solo di qualcosa che segna un’ssenza, è un grido senza voce, è un… “senza” e basta. Non sa più parlarci, ha smarrito i suoi significati, è finto, falso come le promesse non mantenute.

Ti ho amato tanto, caro silenzio, ma non ti riconosco più. Capita anche nei migliori matrimoni, è capitato anche a noi due. Mi fai paura.

Allora l’afferro questa paura, devo pur sopravvivere, la prendo sottobraccio ed esco. Sì, me lo ricordo, non oltre i duecento metri da casa. Metto le scarpe con i tacchi, però.

Almeno ascolto, se non la voce del silenzio, il rumore dei miei passi.

Non è molto romantico, si poteva fare meglio, ma è pur sempre… “qualcosa”.

Mi viene da pensare camminando, ma è meglio stendere sull’argomento un pietoso velo di… silenzio.