La mia quarantena, risale a molto tempo fa. Al giorno in cui sono nata. La “diversità fisica”, venuta al mondo, alla fine dell’Ultima Guerra, significava: esclusione sociale, vergogna, paura del giudizio degli altri, segregazione parentale, miseria e depressione.
Quella, dovuta al Corona Virus, non mi ha trovata impreparata, in quanto vivevo già a letto da oltre due anni per fratture varie.
Sola lo ero sempre stata e la capacita’ di tenermi compagnia, l’avevo appresa in tenera età.
Mi bastavano un buon libro, il volo irrazionale della fantasia, portare indietro il passato, lucidare i pochi ricordi buoni, lasciare andare qualche lacrima e tutto diventava: vivibile, contenibile, facile da sopportare.
Persino quel silenzio irreale che incappucciava: le case, i giardini, le strade, mi dava un senso di pace. Era come se l’esistenza si fosse fermata e la Terra stesse ricomponendo i propri spazi naturali. Oche in fila indiana, famigliole di cinghiali, piccoli schieramenti di cerbiatti passeggiavano allegramente per quelle strade deserte, dove gli uomini erano “spariti” con i loro soliti e sgradevoli rumori. Le cifre dei malati, dei deceduti, dei cadaveri bruciati in fosse comuni scorrevano sullo schermo della televisione. Erano: lacrime e sospiri. Domande ancor oggi senza risposta. Un blaterare continuo di virologi e scienziati in medicina. Un virus, assai simile ad una banale influenza, si era sparso per il mondo; falcidiando: giovani e anziani, deboli o nerboruti. Vittime inconsapevoli di uno strano destino.
Soltanto la morte, sembrava: parlare, urlare, gridare con un pugnale in mano. Dentro quelle stanze d’ospedale: medici e infermieri, si aggiravano come palombari che al posto del mare, avessero scelto di navigare tra caschi, bombole d’ossigeno e respiratori.
La mia “cuccia”, accogliente come una culla divina, era imbevuta di cosmogonie greche, di poesie di Neruda, dei dipinti di Dalì, di contatti streaming con personaggi della filosofia e del sapere.
Non potevo uscire e riempivo l’anima con schermate di sole sulle finestre chiuse. Le due ragazze albanesi che due volte al giorno si prendevano cura della mia persona, mi davano relazione sull’andamento cittadino: bar, ristoranti, negozi con le serrande abbassate. I loro figli, costretti a seguire la scuola via web, chiusi in casa, segregati tra quattro mura domestiche, privati di dar sfogo alla loro esplosiva esuberanza.
Tutto, prima o poi, sarebbe finito. L’estate, piena di gioia e colori, sarebbe tornata a farsi amare come la più bella stagione dell’anno.
Per me, pandemia a parte, non sarebbe cambiato nulla, tranne il via vai delle auto, dei motorini sotto il balcone della mia stanza e quella voglia di vedere il mare che non mi faceva dormire ormai da troppo tempo!