Dalla Cina col tampone.
Quante cose ci arrivano dalla Cina, ora, come si dice, ci hanno inviato il Coronavirus, creato da loro, che se è davvero così, sarebbe una delle poche cose create tutta da loro e quindi non copiate.
Negli anni 70 invece, proveniente dalla Cina, in Italia trionfavano ovunque i film di karatè.
Nel mio quartiere a Secondigliano, c’era una cappella votiva intestata a Bruce Lee e, per devozione, tutti i bambini non pregavano ma la prendevano a calci come fanno i karateki.
Non c’era cinema in quel periodo che non proiettasse quei film e non c’era bambino o ragazzetto che non li andasse a vedere.
Anche io ci andavo e quando il cassiere inquadrava la mia disabilità, intenerito mi dava il posto quanto più lontano dallo schermo, come a proteggermi dai calci che da lì a poco sarebbe volati.
Infatti già durante la proiezione del film gli spettatori si prendevano a piedi in faccia fra di loro sibilando mugugni con la bocca ed emulando quello che succedeva sullo schermo. Le poltrone volavano e quando la maschera protestava veniva colpita inesorabilmente con i Dan Zuki che sono una serie di pugni consecutivi e poi finite con i Gyaku Mawashi Geri calci circolari e taglienti.
E la cosa era bella per quello.
La caratteristica del dopo cinema invece era quella che uno tornava a casa e voleva spaccare tutto. Molti aprivano la porta di casa con un calcio e subito il padre li atterrava a schiaffoni napoletani molto più dolorosi di quelli cinesi di Bruce Lee.
Noi ragazzini eravamo tutti condizionati da questi film, li vedevamo anche due o tre volte di seguito e poi eravamo pronti a fargliela pagare a chiunque.
Uscivamo in branco dal cinema, muovendoci in semicerchio; certi in un paio di ore avevano imparato anche il cinese verace, mangiavano agrumi credendo di inizializzarsi verso il cinese mandarino e con quel idioma si rivolgevano ai passanti che si facevano da parte straniti mentre volavano calci.
Molti prendevano il primo mattone che capitava, lo facevano tenere forte da altri 2 e davamo un colpo violentissimo con il quale si fratturavano il palmo della mano con l’interessamento del polso. Sulle prime i più duri fingevano che non fosse successo niente, poi la frattura ragliava, il dolore saliva e loro in piena crisi di pianto fermavano la prima auto e si facevano accompagnare al Pronto Soccorso.
Era un effetto immediato: si svuotavano i cinema e si riempivano i reparti di ortopedia di tutta Napoli.
“Dalla Cina con furore” nella prima settimana di programmazione fece una strage; intere comitive di piccoli cinesi napoletani si infrangevano con gli arti superiori ed inferiori su mattonelle, mattoni forati e mezzanelle di legname. Il CTO di Napoli lanciò l’allarme gessi perché non ne aveva più e le ultime imbracature di arti rotti le faceva con i cartoni rubati ai clochard.
La città viveva una vera e propria emergenza da Karatè tutti coliti da una nuova sindrome, tutti temporaneamente disabili colpiti da un handicap cinese.
Quando uscì “L’urlo di Chen terrorizza ancora” le Asl temettero il peggio.
Il presidente della Regione Campania di allora, Nicola Mancino, andò direttamente a Pechino da Bruce Lee in persona per convincerlo ad inviare in Campania una versione un po’ più calmierata del film, senza scazzi esagerati. Ma non ci furono versi anche perché Lee non capiva il dialetto stretto di Mancino che era di Montefalcione che è molto più difficile da tradurre dello stesso cinese mandarino.
L’ apice si tocco quando arrivò nelle sale di Napoli “5 dita di violenza” un filmaccio senza una trama vera. Erano due ore di scazzottate continue e mosse di karate mortali dove, si dice, alla fine della lavorazione soccombettero anche i 2 sceneggiatore sotto le mazzate di Ping Wang al cui confronto Bruce Lee era un damerino senza cazzimma.
Intorno a me cominciò a però farsi il vuoto.
Moltissimi dei miei amici erano fasciati o addirittura ricoverati in seguito alle loro evoluzioni paracinesi successivi alla visione del film. Io invece stavo benissimo e la cosa non è che mi facesse stare proprio bene.
Nella mia comitiva ero l’unico che, a causa della mia disabilità, non avevo mai provato a fare la mossa del Dragone Cinese o piegato la Mano a Testa di Gallina.
Da solo nella mia cameretta ci tentavo anche, mi atteggiavo, più che altro urlavo roteando le braccia, ma la cosa finiva li: non avrei mai potuto emulare l’amico Bruce e di questo ero conscio, anzi se il karateka cinese mi avesse visto mi avrebbe fatto ridere indietro dal resto dei 10 miliardi di suoi conterranei.
Ma quei film li andavo a vedere comunque.
Uscivo dal cinema con gli altri e mentre loro saltavano e urlavano agguerriti pronti a fare stragi, io riuscivo al massimo a roteare i gomiti e a fendere l’aria con le “chianette” (i palmi delle mani aperti). Il furore della Cina entrava in me attraverso lo schermo e dentro di me rimaneva. Ne usciva solo una vacua incazzatura senza voli e senza calci. Una cosa floscia che non avrebbe mai avuto l’avallo di Bruce.
Per molto tempo ho sognato di essere al centro di una rissa pseudo cinese con tutta una serie di cinesini che facevano la fila per essere storpiati dal sottoscritto con calci e voli alla Ang Lee. Ma niente da fare, i miei erano solo voli pindarici e mazzate inespresse e dovevo anche stare attento a non farne accorgere all’ortopedico che mi avrebbe sicuramente richiamato all’ordine.
I dolori del giovane Raffaele.
Capite come può essere triste la vita di un disabile: tutti scalciavano impossessati dal demone cinese Bruce Lee ed io che al massimo riuscivo a sferrare un mezzo colpo di gomito da fermo, come impossessato dal nonno di Lee che comunque veleggiava verso gli 85 anni ma nei movimenti era molto più sciolto di me.
La cosa durò per molto tempo; molti bambini più esperti per perfezionare le loro mazzate andarono addirittura in oriente mentre in me la Cina si allontanava sempre di più. Inesorabilmente, su di me restava l’handicap italiano e non attecchiva l’handicap cinese.
Ad un centro punto smisi di andare a vedere quei film che mi prendevano dentro e mi elettrizzavano e comincia a vedere pellicole più tranquille come “L’ultima neve di primavera” una cosa drammatica. E questa volta uscivo dal cinema piangendo, embé quello si, quello lo potevo fare.