Maristella si sentiva leggera. La grande cesta di vimini era finalmente vuota, lei aveva appena consegnato alla taverna in riva al mare le tovaglie fresche di bucato e profumate di lavanda.
Sulla spiaggia battuta dal sole i pescatori a gran voce invitavano i passanti ad avvicinarsi. La pesca era stata buona e triglie, calamari, cozze, polipi, saraghi e sconcigli facevano capolino tra le maglie delle reti.
I tavoli dell’osteria erano stati allestiti per il pranzo e dalla cucina venivano profumi da far girare la testa.
L’oste aveva dato a Maristella il compenso pattuito per il bucato e lei, cercando di non farsi vedere, aveva infilato, rapida, le monete nel corsetto, voltandosi di spalle. Poi con occhi languidi di desiderio, non riuscendo a resistere ai richiami dell’olfatto, si era girata e aveva chiesto all’uomo cosa stessero cucinando le donne di così profumato. Lui, che pure di solito indugiava con sguardo non proprio innocente sulle acerbe forme di Maristella, era un buon diavolo, così le disse di aspettare e sparì dietro una tenda per far ritorno subito dopo con una ciambella profumata di vaniglia, ripiena di canditi e uva passa. Maristella l’annusò con voluttà, socchiudendo gli occhi, poi li riaprì piano, quasi a non voler disperdere attraverso nessuna fessura l’aroma che si era infilato su per le narici. A quel punto rivolse all’oste uno sguardo carico di riconoscenza e si allontanò in fretta.
La marina era un incanto quel giorno, lei avrebbe voluto fermarsi per godere dello spettacolo, per respirare un po’ d’aria salmastra e riempirsene i polmoni. Aveva sentito dire che faceva bene, ma doveva tornare, non poteva fermarsi. La comare l’aspettava per le altre consegne. Così a passo svelto si avviò per la risalita, passò davanti all’immagine dell’Immacolata e si fece il segno della croce, poi bevve alla fontanella del viandante posta a metà delle scale. Asciugatasi il sudore che le imperlava la fronte, proseguì rinfrancata per i gradoni di pietra che dalla marina si arrampicavano su fino in paese. Alla fine lo sapeva, c’era l’immagine di Sant’Anna ad attenderla. Era un appuntamento fisso il loro, la santa la guardava dal muro di tufo alla sua destra e aspettava che lei si fermasse. E Maristella ogni volta si fermava e si segnava di nuovo, proprio come le avevano insegnato le suore. Lei era sicura che la santa la seguisse con lo sguardo dopo averle impartito la sua benedizione, lì dalle maioliche sulle quali era ritratta a tinte vivaci, che sfidavano lo scorrere del tempo.
Bisognava farseli amici i santi, pensava Maristella e così, a suo modo, li accontentava. Ma lo stridio dei gabbiani appollaiati sui merli della torretta bruna, che si ergeva a guardia della villa di fronte, catturarono la sua attenzione. Se ne stavano lì immobili, sotto il sole ormai alto nel cielo del mezzogiorno e lei, guardandoli, si chiese come facessero a resistere fermi nella stessa posizione al caldo di quella rovente giornata estiva. Lei già non ce la faceva più ed era solo a metà giornata; era tutta sudata, i capelli le si erano attaccati alla nuca, il corsetto le si era appiccicato addosso, i piedi le facevano male, ma non poteva fermarsi e continuò a salire, un gradino dopo l’altro.
A un tratto l’alto muro, dietro al quale si nascondevano alla vista le case dei signori costruite a strapiombo sulla costa, terminò e il mare ricomparve in tutto il suo splendore. Allora Maristella si fermò, la comare avrebbe aspettato. Aveva bisogno di una sosta, aveva fame e voleva riposarsi. Stava correndo su e giù per Sorrento dal mattino presto. Poggiò la cesta del bucato sul muretto accanto e si sedette.
Di fronte a lei il mare azzurro si stendeva quieto e luccicante sotto i raggi perpendicolari del mezzodì e sullo
sfondo il Vesuvio e Napoli facevano da quinta. Lei non c’era mai stata a Napoli, ma aveva sentito dire che era una città grande e bellissima, piena di chiese d’oro e d’argento. Un giorno ci sarebbe andata, magari in viaggio di nozze, e si sarebbe fatta nuovi amici tra i santi in città.
Ma un pensiero brutto la fece sussultare, distogliendola dai progetti per il futuro. La preoccupazione di aver perso le monete dell’oste l’aveva assalita all’improvviso, così andò subito ad accertarsi che non fossero scivolate via insieme alle gocce di sudore. No, per fortuna erano ancora là le monete, nel corsetto, tra la camicetta e la pelle madida. Allora, tranquillizzata, si sfilò le pianelle, i piedi ne vennero fuori gonfi e rossi, avevano bisogno di prendere aria. A quel punto infilò la mano in una tasca del grembiule e ne tirò fuori la ciambella. Iniziò a sbocconcellarla piano Maristella, nel timore che finisse troppo in fretta.
Volentieri sarebbe tornata a casa, ma la giornata era ancora lunga e doveva lavorare fino al tramonto.
Mentre ad occhi chiusi stava addentando con gusto l’ultimo morso, sentì una voce vicina. Sperò in cuor suo che chiunque fosse non ce l’avesse con lei e continuò a masticare, facendo finta di nulla, ma la voce continuava. Con insistenza, con gentilezza, ma continuava.
Maristella non capì cosa stesse dicendo, allora aprì in fretta gli occhi e ancor più in fretta deglutì, con sommo dispiacere, senza poter assaporare l’ultimo boccone di uvetta e canditi. Si strofinò gli occhi pieni di sole e cercò di mettere a fuoco la figura da cui proveniva la voce. C’era qualcuno davanti a lei che le parlava. Maristella non l’aveva sentito arrivare, assorta com’era nel suo paradiso privato, ma quello, lo sconosciuto, ce l’aveva proprio con lei, non c’era dubbio.
In giro a quell’ora, ai piedi del monumento, non c’era nessun altro. Allora lei lo fissò quello sconosciuto, cercando di definire l’immagine sfocata, e si sforzò di capire cosa stesse dicendo. Era sicuramente uno straniero, era giovane, forse aveva la sua età, ma era pallido, biondo, con degli occhialini di metallo sul naso; parlava strano e indossava una giacchetta come quelle che portano gli studenti. In mano aveva un fascio di libri, tenuti insieme da una corda.
“Nun v’aggiu capit. Che vulit a me?” gli disse allora Maristella, quando il giovane ebbe finito.
“La casa del Tasso. Tor – qua – to Tas – so, il poeta – rispose il giovane sillabando, nello sforzo di farsi
intendere – Sarebbe così gentile da dirmi dov’è? Mi hanno mandato qui, ma io mi sono perso, non la trovo.
Può indicarmela, per favore?”
Maristella si fece seria tutt’a un tratto, si mise d’impegno, si sforzò, leggendo il labiale, di capire e capì.
Quel giovane che la stava fissando in attesa di una risposta era proprio uno studente e parlava l’italiano meglio di lei. Anzi, lui lo parlava, lei no. Lei a scuola non era andata e parlava solo il dialetto.
Si vergognò Maristella. Per la sua lingua misera, per i piedi scalzi e arrossati, per le pianelle sdrucite, che giacevano a terra, per le sue mani grossolane, segnate dalla fatica, per i suoi abiti poveri, per il boccone in bocca, che era stata sorpresa a masticare in quello che avrebbe dovuto essere un momento solo suo.
Ma ancor di più si vergognò per la sua ignoranza Maristella. Non sapeva chi fosse questo signor Tasso. Non l’aveva mai sentito nominare.
E come l’aveva pronunciato bene lo straniero quel nome. Si, proprio bene. Con un’intonazione elegante, una voce gentile. Si, forse una volta aveva sentito dire da qualcuno che un personaggio famoso era nato lì, a Sorrento, proprio nella sua terra, ma lei non ne sapeva niente, non conosceva la sua casa e non gliene importava nemmeno. Si sforzò di frugare nella memoria, ma non trovò niente. Della sua terra Maristella conosceva le estati roventi e gli umidi inverni, le reti dei pescatori stese al sole ad asciugare, il profumo dei limoni, gli ulivi d’argento, la luce accecante della marina, il caldo insopportabile dello stanzone delle lavandaie e il refrigerio del corpo immerso nell’acqua di mare, la stanzetta buia e angusta che divideva con i fratelli, i nonni e i genitori, i morsi della fame quando si andava a letto con la pancia vuota, la processione degli incappucciati il venerdì santo, l’abito della festa. Nient’altro.
Se qualcuno era diventato importante e famoso al suo paese a loro non ne era venuto nulla. Perciò a casa sua queste storie non le conoscevano. Quello studente, invece, era venuto da lontano e le conosceva. Che vergogna! Certo, a lei non importava niente, se lo andava ripetendo, però non riusciva a non provare un grande imbarazzo di fronte a quel giovane così diverso da lei.
Allora, rossa in volto e adirata con se stessa più che con lui, cercando di nascondere le mani screpolate sotto al grembiule e i piedi rossi l’uno dietro l’altro, lo guardò bene, cercando di farsi capire e disse sgarbata: ”Nun ‘o ssaccio. Nun l’aggio mai sentuto ‘stu signor Tass. Nun ‘o vedite che song ‘na lavandaia? E ’mo facitmne ‘i, che nun teng tiemp a perdere cu ‘sti chiacchiere. Bona iurnata”
E come una furia saltò giù dal muretto, s’infilò le pianelle, si rimise la cesta sotto al braccio e gli voltò, brusca, le spalle. Ma fece in tempo a sentire il giovane che, farfugliando, si scusava con lei.
“Mi spiace…mi scusi…non volevo arrecarle disturbo. Volevo solo un’informazione. Pensavo che lei, essendo del posto, lo sapesse”
Interrompendo quella che era più una fuga, Maristella allora si voltò, mise la mano libera sul fianco e guardò il giovane dritto negli occhi, anzi negli occhiali, poi gridò:” E invec nun ‘o ssaccio. Vabbuò?”
Non si voltò più indietro Maristella e corse, amara, dalla comare, riuscendo pure a recuperare quei pochi minuti che aveva rubato di fronte al mare. Il dolce sapore della ciambella con l’uvetta e i canditi l’aveva bella che  abbandonata. Al suo posto, fiele. Però un dubbio le si era insinuato nel cuore: Forse tra l’umido senza speranza della grotta in cui abitava con i suoi genitori e sorelle e fratelli e nonni e le belle case dei signori che guardavano il mare, c’era un’altra possibilità di stare al mondo. E forse non era irraggiungibile come le ville sul mare. Le era sembrato per un attimo di scorgerla negli occhi di quel giovane, a cui si era rivolta in maniera villana, non conoscendo altro che il suo dialetto, che gli aveva sbattuto sul muso; le era sembrato di intravederla quella possibilità nella lingua di lui, forse tra le pagine dei libri che teneva sotto il braccio.
Perché, se uno veniva da lontano e faceva un viaggio così lungo, ma non andava in carrozza e non indossava abiti sfarzosi, un motivo ce lo doveva avere. Non sembrava ricco quel giovane, eppure aveva un’aria così distinta.
Mentre questo ed altri simili pensieri le affollavano la testa, mescolandosi alla luce e al caldo, Maristella fece a ritroso la strada tra smarrimento, rabbia e sudore. I suoi passi non erano mai stati così veloci. Di solito non aveva fretta alcuna di tornare dalla comare, perché arrivare presto significava solo un carico in più di panni da consegnare. E perciò normalmente si attardava lungo la via con qualsiasi pretesto. Fermarsi a chiacchierare con qualcuno, riposarsi sedendo su di un  sasso, entrare in chiesa, ammirare una madonna.
Solo per poco certo, quel tanto che non facesse arrabbiare la comare. Qualsiasi scusa era buona ad allungare tempi e distanze.
Stavolta no, stavolta era diverso. Aveva quasi corso e,  quando fu arrivata, entrando tra i fumi delle pietre arroventate, mentre le sue compagne stiravano, posò prima la cesta e poi le monete sul tavolo di marmo e disse col fiato grosso, sforzandosi di parlare italiano:  Comare, se la mattina vengo una mezz’ora prima, voi me lo insegnate a scrivere il mio nome? Io non voglio più firmare con la croce. Mi vergogno. Così, quando mi sposo al Chiostro di San Francesco, io metto la firma davanti al prete e lo sposo mio, che deve essere istruito, deve sapere leggere e scrivere, non si vergogna di me. E poi mi dovete spiegare pure chi era questo signor Tasso e dove abitava, qual era la casa sua. Voi lo conoscevate, comare? Me le dovete spiegare tutte queste cose, va bene? Io da domani vengo prima, ve lo giuro, comare”
E si mise la mano sul cuore a suggellare la sua promessa Maristella.