«È morto».
Guardavo la cornetta del telefono e pensavo a quando mio padre si raccomandava di non starci troppo tempo. Avevo sedici anni, i capelli lunghi e chiacchierare con le amiche
era il mio passatempo preferito.
«È morto» ripete mia sorella.
Ora ho quarant’anni, i capelli corti e parlare al telefono è ancora il mio passatempo preferito.
«Hai capito? Mi hai sentito?» incalza.
L’ho sentita. È notte, ma sono sveglia. Sono quindici giorni che sono sveglia, da quando mio padre è uscito da casa mia. Era venuto a trovarmi.
“Dai su Carolina, vengo a stare qualche giorno da te, che non ci si vede mai. Si fa un po’ i turisti nella tua città. Se no che sono andato in pensione a fare.” Aveva scritto in un messaggio.
I giorni erano diventati settimane. Mi sembrava di essere tornata bambina. Eravamo andati al cinema la domenica pomeriggio e dopo a mangiare il gelato, con me seduta sul muretto per essere alta come lui.
All’improvviso una leggera febbre.
“Sempre a fare il ragazzo tu. Dovevi portare il giaccone pesante.” Lo avrebbe ammonito la mamma.
“Tesoro non è nulla, vedrai ora passa” mi aveva detto lui la mattina.
Avevamo prenotato a ristorante, quello dove fanno gli spaghetti allo scoglio, che gli piacciono tanto.
Se l’erano venuti a prendere con l’ambulanza. Voleva vestirsi. Non respirava bene. La febbre era salita. Il medico aveva detto che era meglio ricoverarlo.
“No signora, non può venire. Ci spiace. Sono le nuove disposizioni sanitarie.”
Poi, la porta della vettura si era chiusa e si era aperta quella dell’inferno.
«Ti ho sentita Teresa – dice la mia voce – Per me è solo uscito».
Passarono ventiquattrore prima che qualcuno ci chiamasse dall’ospedale per dirci che era Covid-19, quella strana e brutta bestia venuta da chissà dove, che aveva gettato il mondo intero nello sconforto totale e me nella solitudine più profonda.
Lo avevano dovuto intubare e sistemare in un reparto costruito a tempo di record.
Era stato proclamato il lock down: non potevamo vederlo. Non potevamo prenderci cura di lui, come avevamo fatto per la mamma.
Erano state due settimane allucinanti. Ero chiusa in casa, come una bestia ferita e affamata.
Continuavo a guardare i suoi occhiali accanto al libro sul comodino, pronti ad accoglierlo.
Un’amica infermiera era riuscita a darci notizie. Sembrava che mio padre potesse guarire.
I medici stavano facendo l’impossibile per curare tutta quella gente. Erano allo stremo, ma non mollavano.
Poi, una complicazione e non ce l’aveva fatta. Era morto da solo, senza una parola, una preghiera. Senza poterci guardare negli occhi, tenergli la mano.
Adesso, degli estranei lo avrebbero messo in una bara, portato in un cimitero in fila con altri per una provvidenziale e solitaria benedizione.
Non ci sarebbero stati amici e parenti da consolare; la vicina non avrebbe portato il caffè e lo zucchero; mia sorella e io non l’avremmo guardato adoranti per l’ultima volta chiedendoci chi fosse la sua preferita.
«Carolina, cosa dici? Papà è finito»
«Non può finire così. Per me è solo uscito. Lo aspetto qui».