«Come fanno a non capire?» mi chiesi con il cellulare in mano.
Quel video con tutti quei ragazzi americani decisi a godersi le vacanze di primavera mi sembrava assurdo. Per loro non c’era alcun bisogno di evitare luoghi affolati, bar, spiagge.
Io mi ero già ritirata in casa da qualche giorno, nonostante nessuna misura fosse stata ancora annunciata. Dalla finestra osservavo la gente passeggiare sotto il tiepido sole di primavera, andare in bicicletta, fare una grigliata in giardino con gli amici.
La mia prospettiva era diversa. La mia realtà era diversa. Ancora una volta, l’essere immigrata mi rendeva diversa. Oggi ci chiamano ‘‘expats’’, cioè ‘’espatriati’’, un termine nuovo per una storia vecchia come l’umanità. Veniamo spesso menzionati, criticati, enumerati, ammirati. ‘’Coraggiosi’’, ‘’traditori’’, ‘’mercenari’’, ‘’esploratori’’, ‘’senza cuore’’.
La verità? Siamo un po’ sognatori, seppur razionali, un po’ tristi e un po’ felici, divisi tra due mondi.
In principio non avevo prestato troppa attenzione alle notizie dall’Asia: con una neonata, la vera missione era accudire la mia bimba e sopravvivere.
Presto, i racconti si fecero sempre più costanti e numerosi, insieme alle raccomandazioni di mia madre.
Eppure qui erano tutti così calmi…
«Siamo in lockdown» mi dissero un giorno i miei genitori al telefono. Le notizie dall’Italia erano già sul web, ma da qui era quasi impossibile percepire il tremore nelle voci, la pesantezza di quell’ansia nell’anima, la paura, l’incertezza, il trauma, la cruda realtà del non potersi fidare di nessuno.
E io? Io ero nel mezzo. Con gli occhi di una veggente, la voce del destino nelle orecchie, all’erta.
Una Cassandra silenziosa.
«Sono con voi» pensavo incessantemente. Misi da parte la discrezione ed esposi il tricolore, come a dire: «Sono italiana, la mia patria sta soffrendo e io soffro con lei».
Presto fu chiaro che anche qui avremmo dovuto adottare misure preventive drastiche.
Eccolo, il mio déjà vu.
Il seme di una domanda velenosa già nella mia testa trovò il suolo adatto per germogliare: che cosa avrei fatto se fosse accaduto qualcosa di serio alla mia famiglia? La minaccia era vera, vicina e attuale.
Cominciarono gli incubi. Insonnia e angoscia, si sa, sono vecchi amici che si incoraggiano a vicenda.
Luci, ombre, urla, tempeste, interrotti solo dai gemiti notturni di una piccola. Mia figlia aveva bisogno di me. Mia madre aveva bisogno di me, la mia famiglia aveva bisogno di me, ma anch’io avevo bisogno di me stessa, di essere forte, ancora una volta.
Un deceduto tra i familiari, un altro tra i conoscenti, un altro e poi un altro ancora. Telefonate, messaggi, articoli e dati letti sul web tra lacrime sommesse che divennero singhiozzi quando il cerchio della morte si strinse fino a sfiorarmi.
Feci l’unica cosa che potessi fare: ascoltare. Ascoltai la breve cerimonia di tumulazione, ingiustamente smunta, al telefono. Le campane, le voci, il cinguettio dei passeri: vedevo tutto con gli occhi della memoria, da lontano. Promisi il mio saluto, promisi di toccare quel freddo marmo bianco, appena possibile.
I muri nazionali così orgogliosamente abbattuti anni prima erano riapparsi all’improvviso, ancora più alti, ancora più invalicabili: nessuno poteva più entrare, nessuno poteva più uscire.
Qualcuno mi disse che il senso di colpa è ingannevole: sentirsi in colpa ed essere colpevoli vengono spesso scambiati, ma non sono la medesima cosa.
«Quando vedremo la nostra piccolina?» mi chiedono ancora.
Ancora, non ho una risposta, se non un cenno con la testa: «Non lo so».