Era inverno quando è cominciato.
E ancora ti svegli con la stessa preghiera tra le labbra: Fa che sia un sogno.
Ti scopri a vestire i pensieri con parole per spedirli “a un indirizzo nuovo”, come dice una canzone famosa, anche se quelli erano baci.
Baci e abbracci calcolati a distanza, ma i cuori, lo sai, non restano distanti: volano liberi sopra strade vuote, attraversano muri e balconi, applaudono canzoni d’altri tempi che, indenni, raggiungono i pomeriggi lenti di quarantena.
Sventoli un saluto con mani velate di bianco o blu Ehilà, come va?
E smaltisci la solitudine con Musica, Libri, Cinema che diventano amici e i diari nascosti sotto i cuscini trasudano paure, mentre l’inchiostro riflette la luna.
Tutto rallenta, tranne la morte.
Restiamo fermi allora, sotto lo stesso cielo, più terso magari, con stelle luminose più del solito.
La primavera arriva, questo non cambia, su un venticello leggero.
Annusi l’aria con l’idea che non fai altro male se resti a casa, perché, se non appartieni alla nutrita schiera di eroi in prima linea, questa è la tua sola arma.
E ti chiedi: se la morte solitaria non mi ha sfiorato, posso comparire tra parole scritte?
Nel silenzio ti rispondono i dolori passati: un padre, una madre o un caro amico perduti indietro nel tempo, sono grazia ricevuta.
E ora tutto diventa avanti Covid, dopo Covid: un nuovo sistema di datazione che misura distanze, sottrae vita, moltiplica sconforto e nega lacrime davanti a una bara. Decide il tuo posto dentro a un caffè, su un sentiero in montagna o in riva al mare e quanto devi attendere per sedare la fame.
Davanti al supermercato la fila paziente vede sorgere il sole nel terrore di uno starnuto e ti sorprende a respirare in città profumi dimenticati: un glicine fiorito, non ci facevi più caso.
I sorrisi fuggono al di sopra della grata, la mascherina non li trattiene e gli occhi ne cercano altri: assecondano una sfrenata voglia di umanità.
Un uomo muove rughe imbrunite dal sole e srotola la sua vita fatta di quattro stagioni per ottantadue volte: racconta che è stato in marina e, ironia della sorte, dove ora c’è il supermercato prima esisteva una fabbrica di scarpe e lì dentro ci ha lavorato per quasi vent’anni; i suoi figli sono lontani, non li vede dall’arrivo del virus e ingoia a fatica il ricordo, mentre sul marciapiede le scarpe battono un ritmo che è solo nella sua testa.
Cala il silenzio, aspetti il tuo turno e guardi il muro di cinta che costeggia l’altro lato di strada: è grigio cemento, ma porta incisa una promessa d’amore; sul ciglio cammina una gatta, piccola pantera dagl’occhi fosforescenti e ancora più su, verso il cielo, si muovono chiome di eucalipti e pini marittimi al ritmo del vento, lento come lancette di un orologio.
Non c’è che dire, in questa parte di città si respira aria buona e di questi tempi lo controlli il respiro, lo desideri profondo, senza dolore alcuno.
E nel supermercato tra una fragola e l’insalata ti assale il timore per il domani.
Coi sacchetti pesanti, ripercorri all’indietro la fila e da qualche telefonino, come un presagio, sgorga una canzone d’altro tempi “Ritornerai”, ma in cuor tuo speri che la prossima notte sia più clemente delle altre e che la luna piena non si confonda più con l’alba.