Anni addietro, quand’ero un giudice, m’imbattei in una causa mai vista prima.
Il Tempo si rivolgeva a me, La Giustizia, per riavvalersi dei danni subiti da un Uomo.
In men che non si dica si arrivò al giorno del processo. Ambedue si sarebbero avvalsi della propria ragione e parole per difendersi.
Il primo a parlare fu il Tempo:
« Tutti gli uomini lavoravano nella mia azienda. Da sempre il loro destino era vincolato a me. L’accordo si rinnovava da generazioni con tacito consenso. Anche
costui, qui sarebbe stato schiavo di ritmi frenetici, gioie fugaci, vane ricchezze…
Avrebbe impiegato tutta la sua esistenza per raggiungere, sfiorare, ciò che più bramava e una volta afferrato, sarei intervenuto riappropriandomi della sua vita.
Come una Parca, in quel preciso istante, avrei reciso la sua esistenza, il suo aver cercato e mai sfruttato ciò che io generosamente gli avevo concesso. Un pezzo della mia eternità vi par poco? E l’ingrato qui voleva scindere il contratto!» e lo mostrò alla giuria e a me «Come vedete, Lui è una mia proprietà».
Concessi dunque la replica all’Uomo.
«Quella mattina stavo camminando e mi scontrai con la Morte. Era una donna tenebrosa, affascinante e seducente e decisa di fermarla e fu allora che mi rivelò che si era messa in società con il Tempo, il mio capo. Un brivido mi attraversò la schiena.
Quella sera, a casa, udii alla tv dell’accordo del secolo tra Tempo e Morte. Un accordo rivoluzionario che avrebbe portato a enormi guadagni per tutti. La mia vita era frenetica e sebbene lavorassi tanto, riuscivo a mettere da parte il giusto e concedermi poche gioie. Nei giorni seguenti vedevo le strade più vuote, meno rumori, aria più pulita e poi arrivò l’annuncio: restare a casa. Lo prevedeva l’accordo. Noi avremmo continuato a lavorare da lì.
Una di quelle mattine, notai per la prima volta il mio vicino di casa. Si chiamava Silenzio.
Iniziammo a parlare e quando il computer richiamò la mia attenzione, gli dissi che ci saremmo rivisti il mattino seguente e così fu. Era calmo, imperturbabile, profondo
ascoltatore. Il computer mi richiamò nuovamente all’ordine ma quel giorno decisi di ignorare quel suono e così i successivi. Stare con lui mi spingeva riflettere e più
riflettevo, più dubbi emergevano. Mi confidai con Silenzio. Fu l’unica volta che udii la sua voce. Era dissimile da quella di chiunque altro. Intuii che ignaro delle ore, mesi, stagioni, anni continuavo a donarli al Tempo. Aveva comprato la mia vita con delle banconote. Decisi di liberarmi. Chiamai in azienda e mi rispose la segretaria: la Vedova Verità. Non avevo mai saputo quanti anni avesse, ma da che avevo memoria era sempre stata lì. Mi stupii del perché una donna come lei si ritrovasse a servire il Tempo, mente Morte era sua socia… Morte era giovane, bella, ambiziosa, mentre la Vedova Verità… Beh era di un’altra pasta. Le dissi che intendevo licenziarmi.
Nel mese di maggio, quando l’accordo aveva coinvolto l’intero pianeta, mi arrivò questa convocazione a giudizio. Tempo mi aveva fatto causa. Signor giudice, chi ha frodato chi? »
La giuria si ritirò per deliberare.
Chi era colpevole?
Ascoltato il verdetto, emisi la sentenza: Tempo era colpevole. Quel frammento di eternità non era una giustificazione al suo operato. L’avidità l’aveva accecato
rendendolo stolto e come tale avrebbe pagato. Avrebbe risarcito l’Uomo rendendogli tutto ciò che gli aveva rubato. Ora conoscevano entrambi il valore della libertà, che ne facessero un uso corretto. La perseveranza nell’errore non sarebbe stata tollerata mai più.