Provengo da un posto buio e silenzioso, un luogo indefinito sospeso in una dimensione indifferente, statica. Ho volato ospite in un corpo sconosciuto, ignaro di essere un vettore; ho conosciuto il mondo e quegli strani esseri che lo compongono. Mi sono insediato in loro e ho albergato nei loro corpi finché il tempo me lo ha consentito.

Tutto è partito per caso; come una nube di polline sono stato trasportato dal vento e, come un piccolo viaggiatore, sono stato accolto in luoghi confortevoli, ricchi di storie, sentimenti ed emozioni. Di essi mi sono nutrito e, spesso, ciò che ho lasciato non è altro che un ammasso di polvere.

Di storie ne ho vissute tante. La povera signora Amalia quel giorno stava facendo la spesa al mercato rionale quando, uno starnuto partito da un avventore posto accanto a lei, mi ha fatto entrare nel suo corpo. Da lì ho iniziato a conoscerla e a camminare con lei per un breve tratto della sua vita.
Stava acquistando frutta e verdura per il piccolo nipotino che l’indomani sarebbe rimasto a casa sua per tutto il giorno. La figlia glielo portava spesso durante la settimana, prima di andare a lavorare.
Amalia amava immensamente il piccolo Elia, così infatti si chiamava il nipote; quando pensava a lui, nel suo corpo si scatenava una cascata di eventi che io, virus, non riuscivo a capire ma che, in alcuni casi mi davano una sorta di ebrezza, ero felice anch’io . Questa felicità tuttavia mi affaticava, mi faceva perdere energia e, in alcuni momenti, per poco non mi ha ucciso.

Conobbi il signor Anselmo una notte in ospedale; era arrivato con la moglie che aveva avuto un attacco cardiaco. Rimase ore ad attendere notizie della consorte sulle sedie del Pronto Soccorso. Si portava continuamente le mani al viso, disperato, esausto. Io ero lì, appoggiato languidamente sui braccioli di un’anonima sedia in plastica, quella dove il signor Anselmo sedeva; mi aveva lasciato infatti poco prima qualcuno a cui non so dare un nome. Decisi di arrampicarmi sulle sue mani e di
entrare nel suo “edificio” ospitale: volevo conoscerlo. Mi nutrii della sua tristezza, di quella disperazione che ormai so essere caratteristica distintiva dell’essere umano quando è di fronte al dolore, alla malattia. Questo mi fece diventare più forte, padrone di quel guscio che mi conteneva, che mi nutriva e che avrei fatto di tutto per possedere fino alla fine.

Per un lungo periodo mi sono sentito energico, invincibile, padrone del mondo e dell’umanità, ma poi in un battito di cuore tutto è cambiato. D’improvviso la mia voglia di volare, di conoscere, di fare nuove esperienze è stata spazzata via con la forza, ingabbiata all’interno di barriere che mi intrappolavano e mi impedivano di muovermi. Le mani che per lungo tempo mi avevano condotto ad altri ora mi facevano scivolare, portato via dall’acqua lungo scarichi bui che mi conducevano
all’oblio; liquidi impietosi e puzzolenti mi bruciavano e io non avevo modo di fuggire. Io, un tempo potente e invulnerabile, ora ero inerme. Mi mancava la musica, che usciva dalle terrazze delle dimore accoglienti e sicure che ora, erano diventate dei santuari che inesorabilmente proteggevano l’uomo. Mi mancavano l’ebrezza delle emozioni nate dalla carità, l’effervescenza della gioia portata dall’amore. Ero prigioniero di quei corpi che senza pietà avevo distrutto, e che ora cercavano di difendersi da me.
Decisi di rintanarmi in alcuni di essi, negli angoli più bui e silenziosi, in posti dove nessuno avrebbe potuto scovarmi, la stanchezza prese il sopravvento e, sempre più debole, mi addormentai.