Con il fiato grosso, varcai l’entrata secondaria di Castelcapuano. Nessun poliziotto nella guardiola e nessun’auto nel parcheggio antistante.Sotto le mura del palazzo, più severo e grigio del solito, un ragazzino, col viso da monello d’altri tempi, guardava in su aspettando qualcosa. Dai vicoli della Duchesca la voce antica di un venditore, sfidando gli idiomi d’altri mondi che affollano bancarelle e marciapiedi, ripeteva una specie di stornello, il suo canto “a’ fronna di limone”. Una farfalla bianca volò fino a terra, pian piano. Il fanciullo la raccolse, lesse il biglietto e scappò via. Una “palomba” pensai, rammentando che i detenuti del carcere della Vicaria erano soliti lanciare messaggi dalle grate. Affrettai il passo.Il cortile era immerso in una grande ombra. Una campana suonò a distesa e un austero personaggio con una monumentale parrucca, avvolto in un’ampia toga scarlatta, guarnita d’ermellino, entrò dal portone principale passando con incedere solenne in mezzo ad un’ala di strane figure vestiti d’abiti neri e colletti inamidati. Alle sue spalle s’intravedeva la sagoma di una carrozza nera, di quelle che si trovano nei musei. Tutto intorno tavole ingombre di vettovaglie e una gran folla dalle fogge più diverse. Individui dall’insolito cappello di paglia ricoperto di seta nera gesticolavano, confabulavano, correndo qua e là nello spiazzo; “paglietti” mi pare li chiamassero. Ma che film stanno girando? Stordito, mi feci largo tra la calca, sperando di raggiungere in tempo l’aula d’udienza. Era il mio primo incarico da avvocato dopo il praticantato e non potevo deludere il mio assistito. Salii in fretta lo scalone che conduce all’ammezzato. La marea si dirigeva verso lo stesso punto, come attratta da una forza invisibile, in un brusio assordante quanto incomprensibile. Di là della porta spalancata, assediato da una muraglia di corpi, dietro una scrivania ingombra di carte, avvistai un uomo canuto intento a firmare un mucchio di fogli. Non mi pareva di conoscerlo.
– Scusate, ma non è l’aula del giudice Amitrano? – chiesi a quelli che uscivano.
Mi fissarono senza rispondere. I fascicoli volteggiavano sopra le teste dei presenti e ogni tanto una mano rapace si alzava per afferrarli facendoli scomparire nel marasma. Mi sembrava di sentire i soliti dialoghi affannati:
– Giudice, non trovo il mio fascicolo! Collega, mi porti presente che ho un’altra prova testimoniale? Giudice si riserva o ci dà un rinvio?-
Eppure, da quella bolgia indescrivibile non una parola, un richiamo. Cominciò ad assalirmi una misteriosa apprensione. Lo scalone che conduce al Salone dei Busti era affollato di tipi bizzarri che salivano e scendevano con la solita fretta. Le signorine Piazza salutarono con un lieve movimento del capo: guanti, cappello con veletta e lo sguardo perso, tutte e tre a braccetto. Avrei giurato che ne fosse rimasta una sola a combattere quell’interminabile battaglia legale. Guarda, c’è anche l’avvocato Pozziello. Le spalle curve e il viso cereo, gli occhialini neri; meglio toccar ferro! Nell’aula Tartaglione il collegio della Corte d’Appello, seduto in pompa magna, ascoltava un’arringa. L’avvocato, volteggiando nella toga, discuteva con enfasi, ma una folla impenetrabile non permetteva di avvicinarsi. Ma non è l’avvocato Cesare Carbone, principe del foro napoletano? Impossibile, è morto un anno fa!
Improvvisamente apparvero all’ingresso due detenuti, in catene, scortati da un manipolo di… poliziotti? di carabinieri? No, gendarmi. Che strano, il settore penale non si è trasferito al Centro Direzionale? Dal corridoio continuava a entrare gente che mi scavalcava senza urtarmi. L’aula era traboccante di una moltitudine disordinata e insolita che premeva contro le transenne, indicando i due uomini in gabbia. Alcune donne urlavano. Cosa? Non so. Gesticolando si sporgevano dalla balaustra. In disparte, una madre, vestita a lutto, guardava con occhi di pianto e pregava.
La campana batté un tocco e il tempo si fermò. Il sole fece capolino tra le nuvole scure e, filtrando dalle ampie finestre del salone, illuminò la volta affrescata, sprigionando una polvere di luce nella quale si dissolsero tutte le ombre e i brusii. Un usciere venne verso di me.
– Deve andare anche lei. – disse con voce atona.
– E dove? Non riesco a trovare l’aula del giudice Amitrano, può aiutarmi? –
– Lo cercherà domani. – rispose con un sorriso.
– Non posso, stamattina ho un’udienza molto importante e sono in ritardo. –
– Ho capito, è la prima volta che viene qua dopo il grande viaggio e non sa. Stia tranquillo, l’accompagno io.– dichiarò benevolo.
La pioggia scivolò sommessamente sull’asfalto e gli scrosci si confusero al vociare consueto che saliva dalla strada. Lontano, l’eco crudele di uno schianto raggiunse il mio cuore e lo strinse in una morsa. Lentamente tutti i rumori si smorzarono e una nebbia, dolciastra e densa, avvolse ogni pensiero nell’oblio.