Scarto lentamente una caramella all’anice e la metto in bocca con riluttanza. Sai che l’anice, per il quale tu andavi pazzo, non mi piace, io detesto quel gusto dolciastro con l’aroma indefinito tra il finocchio e la menta. Avevi sempre le tasche piene di queste caramelle e le distribuivi continuamente aggirandoti nei mercatini tra le voci sgolate dei venditori, fermandoti a chiacchierare con i negozianti o facendo la corte alle cassiere.
Giusto il tempo che comincia a squagliarsi lasciando una scia zuccherina e appiccicosa lungo la gola, la tolgo dalla bocca e la scaglio verso il mare nella tua direzione. Tanto, è biodegradabile – penso – come era biodegradabile l’urna fatta di sale di colore grigio che custodiva le tue ceneri. L’abbiamo calata lì, al largo, insieme ad un mazzetto di fiori di campo legati con il nastro azzurro. Conosco bene il punto, potrei quasi disegnare una croce sulla superficie che cangia dal colore dei lapislazzuli allo smeraldo, e al tramonto diventa un manto di fuoco e sangue che si stende tra Punta Imperatore e gli Scogli degli Innamorati che, da lontano, sembrano due profili umani colti nel tenero intento di scambiarsi un bacio.
Forio d’Ischia da tempo era diventato la meta preferita delle nostre villeggiature con i suoi tramonti incantevoli, la spiaggia ghiaiosa di Cava dell’Isola e la piccola casetta bianca dei pescatori, che di bello e pittoresco non aveva nulla, tranne la vista mozzafiato sulla maestosa Chiesa del Soccorso, costruita in stile locale sul promontorio, più conosciuta come la Chiesa delle cinque croci.
Oggi, prima di venire qui, sono andata, come faccio sempre quando vengo a Ischia, ad inginocchiarmi davanti all’icona di Sant’Antonio da Padova, quella posta sul muro destro, che ti piaceva tanto. Lo sai che non sono una credente ma devo ammettere che ci sono dei momenti nella vita in cui, necessariamente, si prova un forte bisogno di avere un intercessore tra il mondo dei vivi e quello dei morti, al quale si chiede aiuto attraverso la preghiera, si confidano i pensieri e le angosce. Non saprei sgranare un rosario, né dire le preghiere propiziatorie; in fondo, non mi sono neanche rivolta al santo ma a te. Abbiamo passato una vita insieme tra litigi furiosi e silenzi eloquenti, ma tante cose sono rimaste ancora in sospeso, chiuse nel limbo dell’infinito. Prego per la tua pace, cercando la mia. Ho acceso pure una di quelle candeline elettriche che per me non hanno nessun significato. Non c’è sacralità nella loro luce fredda e artificiale che parte meccanicamente dopo aver inserito una monetina per spegnersi, poi, a breve. Sono abituata alle chiese ortodosse dove si usa accendere candele in pura cera d’api per il riposo delle anime dei defunti ma anche per la salute dei vivi, facendo prima il segno della croce ed imprimendo un bacio sulla superfice morbida e flessibile, segno dello spirito di obbedienza a Dio.
Probabilmente anche la candelina elettrica ha la stessa valenza ma la fiamma della candela che brucia ha quella cristologica, rappresenta la deificazione dell’essere umano, il suo divenire creatura nuova attraverso il fuoco dell’amore di Dio.
Ti professavi un fervente cattolico e commentavi con molta ironia le usanze ancestrali della mia Serbia ereditate dal paganesimo, inclusa l’abitudine di banchettare sulle tombe dei morti, – tanto loro non mangiano – dicevi. Ti chiedevo perché allora, per il Giorno dei Morti, obbligatoriamente portavi a casa il torrone, e nelle occasioni di lutto offrivi a parenti e amici ‘u zuccaro e ‘o cafè come cunzuolo, conforto, per risollevare l’anima e rendere meno amara la perdita. Ti confesso che non credo neanche io che il cibo o le bevande riescano, per bocca dei vivi, a saziare le anime dei morti ma vorrei tanto che tu, oggi, riuscissi a sentire l’aroma dell’anice attraverso la mia bocca. Se fosse così, il mio piccolo sacrificio non sarebbe del tutto inutile.
Il mare davanti a me è particolarmente calmo, trasmette una sensazione quasi mistica per i suoi cromatismi e luce. La spiaggia è deserta, il silenzio un po’ spettrale è interrotto solo dalle grida di qualche gabbiano solitario, raccolte dalle onde che, smorzandole, gli fanno eco. I gabbiani non si cibano più di pesce vivo, invadono la città e vanno come le zoccole ai bidoni della spazzatura – dicevi.
Cercando una forma di contatto con te, immergo le mani nell’acqua con un gesto di morbida carezza. Dove sei? Dappertutto o da nessuna parte? Fisicamente, intendo.
Le tue ceneri sono diventate il nutrimento delle alghe marine o dei pesci che i gabbiani non pescano più? Senti freddo nei fondali lontani dai deboli raggi del sole invernale o, oramai, sei tutt’uno con il corpo frantumato di Tifeo e questo leggero calore che sento scaldarmi il viso è il tuo afflato?
Sai che ancora mi sveglio di soprassalto, ti sento chiamarmi? Eccomi, dico, e poi mi fermo tremante nel buio realizzando che è solo un sogno. Mia nonna materna diceva che non bisogna mai rispondere alla chiamata dei morti perché, poi, ti portano via, nel loro mondo. Io so che tu mi vuoi lì, con te. Con la dolcezza di un bambino spaurito mi chiedevi continuamente di morire con te. Ho paura – dicevi – vieni con me per un po’ e poi torna. Ora lo sai come stanno le cose e sai che, una volta attraversata questa soglia non è più possibile tornare. Con il corpo già in decomposizione e il filo di vita che io tiravo con tutte le mie forze cercando di trattenerti qui, mi hai fatto capire, finalmente, che mi amavi in modo smisurato.
No, non ho ancora scritto il libro su di te. Eppure ce l’ho, sta tutto nella mia testa ma fatica a staccarsi. Per me, quel libro è diventato come la tela di Penelope, scrivo e straccio. E se a volte vedi le pagine bagnate, tranquillo, non sono le lacrime, è il mare, lo stesso che ci divide e ci unisce.