Ho iniziato ad apprezzare e frequentare Antonio Spagnuolo, molti anni fa, in una delle sue vite parallele: quella da medico di famiglia. Figlio di un altro grande medico, oltre che bravo paesaggista e ritrattista, Alferio.                                                              Antonio, aveva seguito le orme del padre, facendo sua la grande capacità diagnostica e l’amore per la professione e per l’arte. Ho poi scoperto l’altra vita parallela di Antonio, quella da poeta, quando ho iniziato a lavorare al Telegiornale Regionale per la Campania della Rai, non direttamente da lui, ma dai colleghi anziani della cultura, che ben lo conoscevano.  Da quel momento pian piano abbiamo cominciato ad incontraci, oltre che per le rituali visite mediche, anche per il piacere di parlare di poesia, magari sempre al suo studio, ma rigorosamente fuori dagli orari dell’ambulatorio. Non nascondo che agli inizi mi sembrava strano che, dietro la razionalità di un ottimo diagnosta, si nascondesse la penna di un poeta. La comprensione di questo è arrivata più tardi, grazie proprio alla bravura di Antonio e ai volumi che, freschi di stampa, mi regalava. Ho imparato così a conoscerlo, ad apprezzarlo in questa, per me, nuova veste, e a seguirlo nel suo percorso evolutivo, benché di strada ne avesse già fatta tanta. Eh, sì, perché di tempo ne era passato tanto dal plauso di Umberto Saba nel 1953 per il volume di esordio “Ore del tempo perduto” e da “Assedio della Poesia”, che di fatto lo aveva confermato nel panorama dei poeti nazionali ed internazionali, visto che l’Antonio poeta è uno di quei pochi ad essere stato tradotto in francese, greco moderno, inglese, iugoslavo, spagnolo, arabo e turco. Confesso di aver sempre fatto fatica a comprendere poeti e poesia contemporanea, ma con Antonio era diverso. Benché molto ermetica, la sua poesia, non solo mi affascinava, ma si dimostrava pian piano sempre più comprensibile. Era solo una questione di cultura, ben diversa da quella fatta sui libri. Con il tempo ho poi imparato dalla vita che cosa fosse davvero la poesia, se non l’espressione sublime della vita stessa. E in questo credo che l’amicizia con un poeta di spessore, come quella di Antonio, sia stato importante. Inutile dire che ho poi negli anni continuato a seguire la produzione di Spagnuolo, apprezzandone la crescita e la naturale evoluzione. Un percorso dove la memoria ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante. Anche ora in “Più volte sciolto” troviamo quasi un diario, nel ricordo di un tempo trascorso che non può più tornare, e che a tratti, sembra così vivo da illudere che il sogno sia divenuto realtà. È il giogo soave della poesia, dolce e dolorosa al tempo stesso. Ma per il poeta Antonio Spagnuolo, oramai abituato, come da lui stesso dichiarato, a pensare in endecasillabi, la poesia non è parte della sua stessa vita, ma la sua vita stessa. Ecco che quindi non meraviglia quell’inquietudine anche in quest’ultimo lavoro, un turbamento che fa parte dell’esistenza di ciascuno, ma che in Spagnuolo diviene occasione per dichiararsi nuovamente innamorato della sua donna. Un amore che in un unico amplesso abbraccia anima e corpo, parole e musica, odori e sensazioni, attraverso quei versi che, come una impronta digitale, fondono realtà e illusione nella materialità della scrittura, sugellandone la provenienza. Ci sarebbe da chiedersi, se è l’autore ad inseguire le parole o che siano le parole ad inseguire il poeta, per sfuggire all’ineluttabilità del destino terreno e potersi rivestire di eterno nei suoi versi.

Carlo De Cesare

 

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