Maremmi Editore Firenze, 2008
Tratto da “Il filo dei pensieri”
Il pomeriggio si preannuncia piacevole, tipico delle giornate di metà Marzo. Il mare percorso da piccole onde, battuto da un timido venticello che lo increspa. Il sole, non caldo, rende i colori familiari e riposanti: l’ideale per uscire in barca, per allenarsi, pensa l’uomo mentre percorre la strada del lungomare in direzione del suo studio.
L’equipaggio era composto da otto ragazzi che entusiasti portarono la jole, con otto posti e il timoniere, dal suo ricovero fino al pontile. A pochi metri alcuni pescatori usavano gli aghi per sistemare le reti, in attesa del momento adatto per pescare. Già forse questo sarebbe potuto essere un segnale. I ragazzi, in piena sincronia, a un comando del capovoga fecero scorrere la barca dalle spalle e la poggiarono con delicatezza in acqua, i remi allineati sul pontile pronti per essere infilati negli scalmi e assicurati perché non ne uscissero sotto lo sforzo della vogata.
L’uomo, impettito nel suo perfetto abito blù, la camicia candida e senza una piega, nonostante la mattina intensa trascorsa al lavoro, la cravatta griffata, un orologio importante a marcarne la condizione economica, profuma di buono e di benessere, varca l’androne del palazzo dove riceve i clienti, al terzo piano di un elegante palazzo d’epoca. Un cenno di saluto al custode e pochi gradini per pigiare il pulsante di prenotazione dell’ascensore; pensa quante volte ha fatto negli ultimi anni gli stessi gesti, visto le stesse persone, detto le stesse parole. L’ascensore si ferma al piano terra, apre la porta e l’accoglie il familiare odore di legno di quello che insieme al palazzo è una specie di monumento, preme il pulsante con il numero tre e l’ascensore inizia la sua lenta corsa per portarlo nel suo mondo, quello dove rappresenta una piccola parte di sé, quella più utile, nella quale si è talmente immedesimato da rimanerne del tutto annullato e imprigionato.
I ragazzi entrarono in barca all’unisono, la mano sinistra appoggiata al bordo sinistro della jole, il piede destro sulla tavoletta poco sotto al sedile, la destra a incontrare il bordo destro e poi facendo leva sulla gamba poggiata il piede sinistro direttamente nella pedaliera. Ognuno tirò a sé il remo dal pontile e l’infilò nello scalmo, pochi giri della vite che assicura il fermo e furono pronti a scostarsi dal pontile. L’allenatore prese posto sul sedile del timoniere. Una bella barca la jole, di tradizione, una barca per allenarsi e gareggiare in mare, e quel pomeriggio faceva proprio al caso dell’equipaggio bloccato in città da un guasto al bus che di solito li portava al lago per l’allenamento. I vogatori spinsero la barca lontano dal pontile galleggiante e fecero scorrere i remi in acqua allontanandosene con cautela, per prendere il mare sarebbe stato necessario uscire con prudenza dal porticciolo, evitando le barche che entravano ed uscivano, ma quel giorno stranamente erano poche. Girata la barca il timoniere cominciò, chiamando le vogate, a guidare con destrezza la barca attraverso l’imboccatura del porto. Il ritmo era blando e adeguato a quegli spazi stretti, ancora poche remate e si sarebbero trovati in mare aperto, fuori e libero lo scafo di solcare l’acqua.
I ragazzi erano impazienti di imprimerle la giusta velocità, per faticare meno e per godere delle proprie capacità atletiche, della forza dei loro anni, dell’entusiasmo della loro gioventù.
Il tempo di chiudere la porta in ferro battuto dell’ascensore e già è nel suo studio, la segretaria lo accoglie con il solito saluto, ormai un intercalare, come un bottone premuto, solo l’avviso che è lì, null’altro. Nelle altre stanze gli impiegati sono affaccendati a cose che percepisce distanti ed estranee, quasi non lavorassero per lui. Come sono lontani i primi passi, l’entusiasmo dei primi anni, i primi affari, quanti sacrifici ma la meraviglia della scoperta: misurarsi con gli altri e con se stesso. Apre la porta bianca del suo studio e varca quella barriera che lo separa dal mondo esterno, entra nel suo cerchio magico, nella sua prigione dorata, alcova del suo egocentrismo, specchio nel quale si riflette l’immagine del suo sapere e del suo celato. Il parquet e il tappeto che lo copre per un ampio tratto rendono l’ambiente caldo e confidenziale. La scrivania e la poltrona, che lo accompagneranno per la restante parte del pomeriggio e la prima sera, lo attendono impazienti di ghermirlo, per sottrarlo ai pensieri, ai sentimenti, a se stesso. Si accomoda e comincia a sfogliare la posta, pochi attimi, poi volge lo sguardo verso la finestra, guarda fuori ma non riesce a spingersi molto lontano con lo sguardo da quella posizione, così si alza per avvicinarsi all’altra finestra, una sbirciata al balcone e poi con indolenza più in avanti . Un rapido colpo d’occhio, quasi timido, un po’ per sottrarsi al piacere dei colori di quel pomeriggio tardo invernale ma soprattutto perché sente avvicinarsi alla porta i passi della segretaria.
Il mare e quel colore più deciso fuori dal porto li accolse, quella che sembrava una timida brezza apparve subito un vento più vigoroso, comunque incapace di creare problemi agli otto atleti e alla loro barca. Avrebbero dovuto vogare costeggiando il castello che si spingeva nel mare, e passarlo per dirigersi sul miglio del lungomare che rappresentava il bacino ideale sul quale provare tempi e percorso. Una leggera corrente tendeva ad allontanarli dalla rotta ideale, ma freschi e non ancora preda dell’acido lattico i muscoli consentivano un agevole controllo della barca. Le pale dei remi entravano e uscivano dall’acqua, in sincronia, ritmati e puliti, sollevavano una bava d’acqua e la barca filava veloce solcando le timide onde, la voce del timoniere scandiva la remata rinforzando quando ce n’era la necessità. Ci vollero una ventina di minuti, forse anche mezz’ora per trovarsi nel punto atteso, questa volta sempre a ridosso del castello ma protetti in un’ansa dove il mare era quasi piatto. Il tempo di riprendere fiato, pochi minuti e poi iniziò il primo percorso, avrebbero dovuto costeggiare tutto il lungomare e arrivare all’altro capo del piccolo golfo, un miglio o poco meno. Il primo sarebbe stato un tratto di riscaldamento in modo da preparare i muscoli, allungarli e predisporli a uno sforzo maggiore. La barca si mosse: la prima vogata e la seconda, i primi dieci colpi, man mano che acquistava velocità la barca si alleggeriva, lo sforzo sembrava meno intenso ma lo era solo in relazione al peso dell’acqua, in realtà muscoli e tendini si tendevano nello sforzo. Il rumore dei carrelli che scorrevano nelle guide, l’acqua che sciabordava intorno allo scafo, qualche spruzzo che arrivava anche sui visi e quell’odore e sapore di salsedine, di mare, di invincibilità.
Anche il modo di bussare alla porta è sempre uguale, ripetitivo e monotono, mai presago di notizie diverse dalla routine del lavoro. In realtà non ha motivo per avercela con la segretaria, è lì per questo, ma c’è qualcosa che in lei lo infastidisce
ogni volta che la incrocia, già solo che ne avverte la presenza, è diventata l’emblema dei suoi doveri, la premessa di ogni cosa da farsi e non da scegliere di fare:
<<Avanti.>> Sempre la stessa parola, pronunciata anche con una punta di distacco e gelo. Eppure c’è stato un momento in cui è stato convinto che lei fosse invaghita di lui. Anche allora però era l’inizio; il carisma, il fascino e il potere di persuasione che l’aveva condotto fino a successi che neanche lui avrebbe ritenuto possibili. Quasi non aspetta la parola completata ed è già lì, ritta sulle sue scarpe nere col tacco alto, le calze velate e il suo tailleur grigio, ad annunciare che in sala d’attesa ci sono i clienti che aspetta. Le chiede di avere ancora pochi minuti e poi di farli passare. La donna esce senza aggiungere altro e richiudendo la porta senza fare alcun rumore. Perché poi quei minuti da fare aspettare si chiede, forse solo minuti da guadagnare. Il tempo di accomodare il nodo della cravatta e di sedere alla scrivania. Pochi minuti dopo, puntuale la segretaria li introduce nella sua stanza. Li accoglie alzandosi e tendendo loro la mano precedendoli e invitandoli a sedere sul divano in pelle che troneggia sul magnifico tappeto, lui si accomoda su una poltrona contrapposta a loro, soprattutto, di fronte alla finestra.
I colpi nell’acqua si susseguivano regolari, di tanto in tanto il timoniere chiamava un rinforzo in acqua. Via dieci colpi, venti…e li scandiva contandoli, poi rimetteva l’equipaggio al passo, fuori dalla barca il mondo quasi non esisteva, così lontano, estraneo. Le auto sul lungomare procedevano lente nel traffico, i passanti intenti ai loro affari, ogni tanto qualcuno guardava verso il mare incuriosito dall’armo e da quei giovani che remavano con foga. Il pomeriggio avanzava e qualche nuvola in cielo macchiava l’azzurro altrimenti terso, il vento era un po’ rinforzato e l’acqua si increspava. Nulla che potesse distogliere l’attenzione dell’equipaggio dalla fatica, dal loro obiettivo. Ancora uno, la barca virò e riprese la pista che fiancheggiava il lungomare, questa volta l’allenatore voleva di più. Cominciarono con trenta colpi simulando una partenza lanciata, breve la corsa sul carrello, rapide le vogate, poi sul passo, la visione, aumentando lo sforzo, si faceva più confusa, meno nitide le immagini, attutiti i suoni, l’attenzione per tutte le cose che circondavano la barca sfumava, tutti erano concentrati sul pezzo di legno che impugnavano. La piazza indicava la metà del percorso, ancora un po’. Il timoniere chiamò a raccolta le ultime energie dei vogatori per uno sforzo supplementare, quello che fa la differenza, che apre un solco nella testa e ti convince che si può andare oltre; pronti, provarono un serrate finale, i colpi si susseguirono sempre più veloci, i muscoli tesi e il sudore ad appannare la vista. Ancora e ancora, ultimi trenta colpi e poi…giù la testa, abbassata a incontrare il remo, l’affanno e qualche colpo di tosse, i muscoli che facevano male.
Dovrebbe ascoltare con molta attenzione quei clienti, d’altronde sono i principali del suo studio, la consulenza più prestigiosa, ma lì fuori… cosa sta facendo quella ragazza affacciata alla finestra della redazione del giornale, proprio di fronte alla sua? Fuma una sigaretta, forse una pausa tra la scrittura di un pezzo e una riunione. Più in là una signora guarda la televisione stando in poltrona e quell’uomo legge il giornale sul terrazzo della sua casa mentre la domestica in grembiulino innaffia le
piante. L’uomo vaga con la mente fingendo interesse per le parole dei suoi ospiti, li guarda e pensa da quanto tempo hanno perso di interesse per lui, così come il suo lavoro, parlava di rivedere i termini del contratto, meno ore e più fruttuose, o cercano solo uno sconto. “E anche con questi non me la posso prendere”, pensa l’uomo, sono venuti comandati da qualcun altro, diranno altre quattro parole, lasceranno le loro carte da visita e approfitteranno di essere fuori sede per regalarsi una serata diversa dalla monotonia delle solite trascorse a casa a domandarsi cosa avrebbero cenato e visto alla televisione. Che seccatura. Finalmente, per l’uomo, l’incontro ha fine, si salutano promettendosi un aggiornamento dopo tre mesi. L’uomo chiude la porta alle loro spalle e poggia la fronte contro il battente, rimase così alcuni istanti con gli occhi chiusi. Non ha altri appuntamenti e intende dedicarsi a stendere delle relazioni. Ma non riesce a concentrarsi, così si dirige verso la finestra e torna a guardare cosa accade intorno, a ripercorrere, attraverso la vita degli altri che scorre, la propria. Niente più incanto, illusioni e voli di fantasia, solo la realtà, la concretezza un po’ cruda della vita di tutti i giorni. Essere, pensare di essere più che altro rappresentare. Un fantasma in un castello disabitato intento ad agitare le catene della propria vita, prigioniero di ciò che ha costruito, il bisogno determinato dalla disponibilità in un’incessante rincorsa che si rigenera di nuove necessità mai soddisfatte o mai godute. I polsini della camicia sembrano stringere oppressivi, l’uomo li sbottona, poi allenta il nodo della cravatta e fa lo stesso anche con il colletto della camicia, prima un bottone poi l’altro, uno sguardo nella piazza sottostante; persone intente a fare compere, una coppia di fidanzati si tiene per mano, quel bar così sempre affollato perché di tendenza e lui lì spettatore non pagante. O forse si, pagante eccome. La luce nello studio è diminuita ma l’uomo non accende la luce né la lampada sulla scrivania. Resta così del tempo, lo sguardo perso a vagare nello spazio oltre il vetro.
Pigra la barca fu assecondata nella virata, un altro percorso per fare fiato e permettere al fisico di smaltire le tossine accumulate nello sforzo, intanto il pomeriggio stava per lasciare posto alla sera, il vento era ancora rinforzato e ora si faceva fatica a fare avanzare lo scafo. A metà del tragitto l’allenatore, come se avesse avvertito qualcosa nell’aria, iniziò una virata larga allontanando la barca dal lungomare, dagli scogli; pochi minuti e il vento prese a soffiare forte alzando spruzzi d’acqua e agitando l’acqua intorno all’armo. I vogatori erano fradici di sudore e di mare e la fatica si faceva sentire, spingevano sulle pedaliere e con braccia, spalle e schiena, ma la barca non ne voleva sapere di avanzare. Il timoniere chiamava dei rinforzi di tanto in tanto ma sortivano scarso effetto. Era necessario portarsi fuori, per rientrare bisognava tenersi lontani dal castello, troppo alto il rischio di essere sbattuti dalle onde che crescevano contro gli scogli che lo circondavano. Calava la sera e il lungomare era soltanto un caleidoscopio di luci e colori notturni, ma i vogatori non ci badavano, soltanto concentrati a spingere la barca fuori, lontano dalle mura, dal pericolo.
Il timoniere li incitava, chiamava remate più energiche e la certezza che solo loro si sarebbero potuti tirare d’impaccio. Era iniziata una corsa contro un rovescio di tempo peggiore. Sudore, acqua e sapore di sangue in bocca, muscoli e nervi tesi allo spasimo e poi fuori, lontani dal castello, ma con onde più alte, la barca che sembrava un guscio che da un momento all’altro poteva essere rovesciato e travolto, il volto dell’esperto allenatore teso e pallido, e i canottieri che potevano solo remare, senza mollare, senza abbandonarsi e cedere.
Non si è mai sentito così, le difficoltà lo atterriscono e reagire lo lascia indifferente. Quanta inutilità, ipocrisia. E tutto quello per ha lottato… Le immagini di amici, vacanze, famiglia e il tempo, quello dedicato agli altri e quello dedicato a se stesso, gli scorrono rapide e traditrici. Apre la finestra, respira a fondo l’aria frizzante della sera, poi guarda in basso. Come sarebbe facile interrompere quel flusso continuo di pensieri, sensazioni ed emozioni, un clic, un interruttore che si abbassa e tutto scivola via, un oblio senza tempo né spazio, il contatto fisico con gli altri di cui non ha più bisogno e le parole inutili e i grafici, gli abiti sartoriali e apparire e non già essere. E allora meglio non essere, apparendo per quello che si è nel momento in cui non si appare più. Un’attrazione, calamita verso il basso, quasi la sensazione di sentire l’odore dei cubetti di porfido che compongono il disegno della piazza molti metri più in basso, le mani serrate sulla ringhiera, uno spasmo, le nocche delle dita bianche per la tensione…Basterebbe poco.
Il peggio era alle spalle, distanti dalla base della costruzione, del castello, le onde ancora alte, ma l’acqua meno dura, meno pesante. Il ritmo era ora meno veloce, lo scontro era vinto, quando ormai era sera. Gli ultimi metri separavano l’imbarcazione dall’entrata del porticciolo e i ragazzi talvolta giravano lo sguardo verso la luce rassicurante del fanale ormai poco distante, in quel punto c’era meno vento e le remate erano meno faticose. Ancora dieci, ecco, l’acqua ormai era piatta, quel posto così riparato, che sollievo! Lentamente si avvicinarono al pontile fino ad accostarsi e dava sicurezza la mano aggrappata per tenere ferma la barca. La tensione disegnata sul volto di tutti, i visi inespressivi, non una parola o un moto di esultanza, troppa emozione e consapevolezza. Momenti difficili, critici, superati, ma che traccia hanno lasciato… Scesero dalla barca e prima di alzarla furono costretti a fare uscire l’acqua imbarcata; si guardarono ma senza parlare, silenziosi si avviarono verso la rimessa.
La segretaria bussa alla porta richiamandolo alla realtà, pochi attimi e neanche il tempo di invitarla a entrare, è già dentro e senza pensarci accende la luce che, viva e forte, lo costringe a tornare in sé. Si augurano una buona serata rimandandosi al giorno dopo, l’uomo resta solo, richiude la finestra, con calma, pensieroso. Una luce rossa attira il suo sguardo verso il mare, socchiude gli occhi per vedere meglio e ricordare. Una barca, un castello e la lotta con le onde.