Scritto per il 65-esimo compleanno di Mauro Giancaspro
Il via lo diede lui, un tomo di storia greca incartapecorito, dedicato alle guerre del Peloponneso. La cotenna giallastra che l’avvolgeva mostrava i segni dell’età e di eroiche lotte sostenute con generazioni di utenti, qualche volta consorziati in gruppi; piccole bande di mercenari della lettura ingaggiati da sadici maestri assetati di bocciature, che avevano cercato di vincere la sua resistenza a piegarsi. “Mi spezzo”, aveva sempre pensato orgogliosamente il vegliardo, “ma non mi piegherò mai!”. E invece s’era piegato quando un rozzo giovanotto nerboruto e senz’anima l’aveva costretto sul bordo del tavolo e in uno sleale braccio di ferro l’aveva quasi slogato. Con un gemito scricchioloso il vegliardo s’era dato per vinto, sentendo che le cartilagini delle sue colle e i tendini di canapa stavano ormai cedendo. Sgomento per l’improvvisa resa, il giovanotto, mollata la presa assassina, aveva tentato di ricomporre il volume. Troppo tardi. La frattura era irreversibile, e il vecchio lo sapeva. L’aveva già visto accadere, quand’era ancor fresco di stampa, su un magnifico erbario maldestramente assalito da un abate grassottello che di nascosto aveva persino strappato una pagina, facendola poi sparire sotto la tonaca.
Proprio lui, il ras del grande castello di cellulosa l’aveva visto, spossato, sopra uno stipetto dove il mortificato ragazzotto l’aveva abbandonato. “Che fa questo volume così mal ridotto su questo stipo?”, aveva tuonato all’indirizzo di una signora dagli occhi di cerbiatta. “Che sia riparato, e subito!”, e s’era voltato lasciando il campo impettito, come Napoleone dopo la vittoria ad Austerlitz. Il vecchio volume, stretto al petto della bella e compassionevole signora, era stato portato al riparo e consegnato nelle mani di un cerusico armato di resine, carte veline, forbici, garze e ogn’altra diavoleria per rimettere a nuovo il grande vecchio che però avrebbe preferito un chirurgo militare. Convalescente, con le ferite che colavano ancora gocce di Vinavil, era stato rimesso al suo posto, nel loculo dove per 200 anni s’era accompagnato a una graziosa grammatica latina e ad un noiosissimo ma ben educato volumetto sulle abitudini sessuali dei fenicotteri rosa.
Fu lui a dare il via. Convinse tutta la famiglia della Treccani, giovanotti gagliardi ma piuttosto spocchiosi, un armonioso libro di musica, due fascicoli sulla storia del principe di San Severo arrivati di recente, ancora un po’ frastornati, e soprattutto il pomposo manuale di geometria euclidea che aveva sempre una risposta in più, a far la festa al boss. La voce del complotto si sparse di palchetto in palchetto, di sala in sala. Una babele di voci, greco, aramaico, finlandese, ma non quello semplice di Helsinki bensì quello gutturale del Nord, un caleidoscopio di caratteri, stampe, formati, cortecce dure di cartone, delicate di pelle, morbide di sete o sottili come canne al vento, nuovi arrivati e vecchi pensionanti carichi di polveri e di odori. Quella che doveva essere un’iniziativa di pochi divenne una manifestazione di popolo. Tutti, ma proprio tutti aderirono e si prepararono all’azione. E venne il giorno. Lui, il barbuto signore si annunciò col suo passo gagliardo che pestava le secolari maioliche del pavimento, le doghe di legno indebolite dal tempo e ciarlanti. Lo seguivano la bella signora, fanti e cavalieri, palafrenieri e dame. Aspettarono che fosse in mezzo alla sala e tutti insieme, all’unisono, gridarono: “Auguri, capo! Buon compleanno Mauro!”. Rimbombarono le volte dell’antica sala, vibrarono le lunghe porte, gemettero i vetri, ma nessuno li udì. Solo lui. Solo lui, perché … ormai era diventato quasi uno di loro, un libro.