Da "Il Settimanale" della TGR Campania di sabato 14 novembre 2009 ore 12:30.
Il medico della gente: quando l'arte medica diviene poesia.

Sarò sempre grato a Procolo Mirabella l’allora caporedattore vicario della nostra redazione per avermi segnalato per la rubrica il volume del dott. Antonio Di fraia e per avermi così dato l’opportunità di conoscere un gentiluomo, un poeta, un grande medico, una persona speciale, un amico.

Sì perché dopo quell’intervista, abbiamo continuato a sentirci per telefono accantonando quel “lei” divenuto per “noi” oramai fuori luogo.

Ma il nostro rapporto, tranne che per il commovente incontro avvenuto dopo la morte della moglie, se ben ricordo in occasione di una premiazione, fu solo ed esclusivamente telefonico.

Leggendo il “dietro le quinte” della figlia Maria Teresa faccio fatica a non biasimarmi per quella mancata cena, che si sarebbe dovuta svolgere assieme a comuni amici e per la quale non riuscimmo a trovare per tempo l’occasione giusta.

Con il passare dei mesi e poi degli anni le telefonate si ridussero sempre più sino a scomparire del tutto. Antonio che conosceva bene i miei impegni familiari oltre che lavorativi, non se ne meravigliava. Aveva imparato a volermi bene così, per quello che ero e per quello che non avrei mai potuto dargli.

Ciao Antonio, Ti voglio bene.

Carlo De Cesare

Il commento di Maria Teresa Moccia Di Fraia, figlia dell’autore, 12 anni dopo

Ho vissuto quest’intervista dietro le quinte. 
Come dietro le quinte ho partecipato alla genesi de “Il piccolo cortile del nespolo”,  aiutando mio padre nella digitazione e quindi nella pubblicazione di quello che sarebbe stato solo il primo dei suoi sei memoriali. 
Conoscevo ogni capitolo, avevamo discusso ogni punteggiatura, selezionato le foto e i ricordi, avevo raccolto le sue lacrime nel rievocare l’amore per mia nonna, ispiratrice e dedicataria di ogni rigo.
“Avrò un’intervista per la recensione del libro, per una rubrica del TG3”: non gli sembrava vero. 
Mentre informava me e mia madre dell’appuntamento, sorrideva, mal celando orgoglio e modestia, combattuto tra il riserbo e il desiderio di far camminare le parole e i versi che avevano tradotto la sua vita operosa e i suoi affetti più intimi.
Durante la ripresa, che lui volle nella sua biblioteca, accanto a una parte dei libri di narrativa e di medicina che continuava a consultare, sia perché non abbandonava i suoi autori preferiti, sia perché gli piaceva acuire la sua capacità diagnostica, preferimmo non origliare. Volevamo anche noi la sorpresa dello spettatore, il piacere di un montaggio inatteso, ma anche rispettare quel momento per lui molto significativo.
A fine intervista fu compiaciuto e raggiante, di una felicità quasi infantile, raccontando di quanto fosse stato capace e garbato il giornalista, il dottore Carlo De Cesare, come gli piaceva chiamarlo con susseguo, quanto fosse acuto e sensibile. 
Poi il servizio passò e lo trovammo costruito a pennello per lui: ne valorizzava il personaggio, figura in estinzione di medico umanista, e ne ripercorreva senza retorica la fatica di una scrittura densa di immagini e di citazioni.
Molti lo videro e piovvero telefonate di familiari e conoscenti, con la conseguente richiesta di avere quel libro, portato agli onori della cronaca.
Ma era scattato qualcosa di più.
Qualcosa che non ho vissuto nella mia militanza di intervistatrice. 
La recensione nella rubrica de Lo scaffale era stata l’occasione di un’amicizia nuova e imprevista per mio padre, un’amicizia sincera e scaturita da un’affinità immediatamente stabilitasi con il suo interlocutore, costruita sulla comune passione per la lettura e sulla condivisione di valori, considerati d’antan.
Seguirono conversazioni e promesse di nuovi appuntamenti, oggi si direbbe “in presenza”.
Mio padre annunciò che il tutto doveva essere sugellato da un solenne invito a cena, che partì regolarmente, ma a data da destinarsi. 
Pertanto, in famiglia si cominciò febbrilmente a dibattere sulla scelta del menu, sul fatto che dovesse esserci perlomeno un piatto cucinato da mio padre, nel risentimento geloso di mia madre, che si considerava ovviamente esclusiva regina dei fornelli.
I ripensamenti e il desiderio di manifestare al meglio accoglienza e convivialità giocarono tuttavia un brutto tiro. 
Quella cena non venne mai cucinata, per il lutto che segnò la morte di mia madre e che per mio padre ha avuto la durata di tutti gli anni che trascorsero senza di lei.
Ma l’intervista, quel momento gioioso che aveva segnato un punto di raccordo tra presente e passato, tra il privato e la cronaca, racchiusa in un piatto DVD rivisto più volte, fu per lui il viatico dei giorni dell’amarezza ed anche lo sprone, terapeutico, a riprendere la scrittura.

Maria Teresa Moccia Di Fraia
Napoli, marzo 2021